Il treno per Istanbul


Siamo di nuovo a bordo di un treno. Ma non di un treno qualsiasi. È il treno per antonomasia, il treno iconico, il simbolo del lusso che ha fatto da sfondo a diverse pellicole e ispirato tante pagine. Siamo sull’Orient Express. è questa l’ambientazione de Il treno per Istanbul (Stamboul Train) di Graham Greene. Scritto durante gli anni d’oro del ‘Grand Hotel su rotaie’ e appena prima del suo exploit come set del famoso assassinio nato dalla penna di Agatha Christie. Negli Stati Uniti esce con il titolo Orient Express. Io l’ho letto nell’ultima edizione di Sellerio curata da Domenico Scarpa e introdotta da una nota di Antonio Manzini. La traduzione è di Alessandro Carrera.

Storia affascinante, avvincente, in cui Greene mette insieme un’umanità varia che abita gli scompartimenti del treno. Da Ostenda a Costantinopoli. Dal Belgio alla Turchia. Cinque stazioni. Cinque ‘capitoli’.

Dell’autore avevo letto, ai tempi dell’Università e dei miei studi di letteratura straniera, la short story intitolata Across the bridge (Al di là del ponte). E ne rimasi colpita. Quindi, a distanza di anni (tanti!) dalla lettura di quel racconto, avendo appreso della nuova edizione di Sellerio del romanzo dello stesso autore mi sono messa a cercarla nelle librerie.

Il treno per Istanbul fu scritto nel 1932, un vero, primo, grande successo per l’autore che lo concepisce già immaginandone la versione cinematografica. “Lo scorrere di un treno sui binari è simile al movimento di una macchina da presa” scrive Domenico Scarpa nella postfazione al libro. Non sarà un caso se nel romanzo ci sono riferimenti espliciti all’arte di raccontare attraverso le immagini in movimento. “I film, pensò Savory, avevano insegnato una cosa all’occhio: la bellezza del paesaggio in movimento, come un campanile si muoveva dietro e sopra gli alberi, come sprofondava e s’innalzava insieme al passo disuguale dell’uomo, […]”.

I riflettori sono puntati sui personaggi, in apparenza distanti gli uni dagli altri. Ma ognuno gravato dal proprio bagaglio: la povera ballerina di varietà (Coral Musker) che viaggia alla volta della prossima ‘scrittura’; il ricco uomo d’affari ebreo Myatt che vive sulla sua pelle, percependola, la discriminazione razziale. C’è il dottor Czinner, misterioso e carismatico; il romanziere Savory; la cinica e spietata giornalista d’assalto, Mabel, e Grunlich, il ladro in fuga, spavaldo e disonesto fino al midollo, la cui disonestà è rintracciabile non solo nella sua ‘professione’.
Le loro individualità, le loro storie sono da Greene ordite in una fitta trama che le intreccia e le tiene unite a formare il tessuto del romanzo.

Un testo che pianta le radici nel periodo storico nel quale si inquadra – gli anni tra le due guerre – ma dal quale non è difficile cogliere tematiche ancora attuali.
Ne esce fuori un romanzo ricco. Ricco di spunti, ricco di analisi psicologica, ricco di azione. E ricco dal punto di vista della scrittura e del lessico; caratteristica, questa, che apprezziamo nella traduzione italiana grazie ad aggettivi come cogitabondo, frusto, ed espressioni come il ‘clangore degli scambi’. Una scrittura che ti ‘trasporta’ (per restare in tema) in un tempo e in uno spazio dipinti nel dettaglio, colti in ogni sfumatura. “Il suo volto scomparve per un momento dalla vista mentre le luci di una stazione mutavano le pareti del vagone da specchi in finestrini”. E ancora, nella carrellata di descrizioni del viaggio attraverso gli occhi (e gli altri sensi) dei passeggeri “Cadevano radi fiocchi di neve, ma il vento spingeva il fumo della locomotiva contro il finestrino, e quando i fiocchi toccavano il vetro erano già grigi come pezzi di carta”. Greene ci porta proprio su quel treno. “Ma nel rimbombare del treno in corsa il rumore era così regolare da equivalere al silenzio, il movimento era così continuo che dopo un po’ di tempo la mente lo percepiva come immobilità”. Il treno diventa un mondo ‘a parte’ dove i personaggi incontrano prima di tutto sé stessi, intraprendendo un viaggio attraverso le rispettive esistenze. “Tra le pareti di vetro era inutile provare emozioni, inutile tentare di svolgere una qualsiasi attività, tranne quella mentale, che poteva essere svolta senza timore di interruzioni”.

Mabel Warren è il personaggio che apre un varco sul mondo della stampa dell’epoca (lo stesso Greene fu giornalista oltre che scrittore e persino agente segreto). Prescindendo dall’indole e dai mezzi di cui si serve il personaggio, dal suo non farsi assalire dal minimo scrupolo pur di portare a casa il ‘pezzo’, nelle pagine di Greene ritroviamo la ricerca della notizia sensazionale, i titoli strillati, i caratteri di scatola, gli articoli dettati per telefono al redattore, una specie di smart working ante litteram. Anche questo spaccato è ricostruito con dovizia di particolari e riprendendo un linguaggio tecnico che conserva il fascino del giornalismo vecchio stampo (ma probabilmente questa è una ‘lettura’ personale, dovuta all’aver per anni vissuto questa professione).

Un libro per chi ama il mestiere di scrivere. Le descrizioni che si trovano nel romanzo sono puntuali, minuziose, tanto da richiedere un discreto grado di attenzione da parte del lettore. Eppure, una volta calati, trasportati appunto, nella realtà tratteggiata da Greene, è facile ritrovarsi nell’ambientazione fumosa e metropolitana fino a riuscire persino ad avvertire il peso dell’umidità, a patire il freddo, a sentirlo penetrare fin dentro le ossa mentre la vista è offuscata dal vapore della locomotiva, arrivando a percepire l’odore pregno di sigari e il fumo delle sigarette consumate lungo la banchina della ferrovia. Allora signori, in carrozza. Si parte!

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