Divorati dalla "Fame"
Fame, in italiano. Non fame (feIm) alla Saranno Famosi. Anche se la tensione verso
l’affermazione nella vita, verso il successo nelle sue diverse declinazioni è
una delle forze motrici del romanzo scritto da Isabella Corrado (Edizioni Ensemble).
Una narrazione che si può
‘divorare’ in poco tempo, ma che si presta anche a una degustazione più
attenta, per assaporarne i passaggi più profondi, descrittivi e introspettivi.
Ma veniamo alla storia, anzi
alle storie che si intrecciano e si identificano nella fame come un vuoto da
colmare. Vuoto di affetti. Di lavoro stabile e appagante. Di amore. Di
relazioni umane. Di certezze. L’epoca è quella attuale, un’epoca in cui forse è
fin troppo comune sentirsi “persone rotte” il cui comportamento è la
“conseguenza di un guasto”, alla perenne ricerca di qualcuno che quel guasto lo
aggiusti. O almeno ci provi.
Manuela Riva – laurea in
Storia dell’arte e master al Royal College di Londra – dopo aver trascorso
diversi anni in Inghilterra, torna a Roma, alla ricerca di un lavoro. Quel che
trova è invece solo un ‘posto’ da stagista. E se il lavoro vuol dire anche
stabilità, relazioni sociali, famiglia, pure da questi punti di vista la
protagonista resta pressoché digiuna, alle prese con un padre costretto a
fuggire e una madre ambiziosa (‘affamata’ di successo).
Il trentenne Derek Zinni,
ricco di famiglia, ma demotivato, quasi apatico, e patologicamente affamato
(nel senso letterale del termine) decide di provare con la psicoterapia.
I due si incontrano. E, prima
degli stessi protagonisti, sarà il lettore a trovare tra loro – all’apparenza
tanto diversi – più di un punto di contatto. Tanto determinata, volenterosa e
fiera ci appare Manuela che fronteggia problemi di natura economica, tanto
arrendevole e indolente a tratti anche ingrato si presenta Derek che vive
lussuosamente sulle spalle di suo padre. Eppure sono due scatti diversi di una
stessa fotografia.
Una parte importante la gioca
il rapporto con il cibo. Sono continui i rimandi alla fame fisiologica, e a
quella malata.
Il cibo come valvola di
sfogo. Come ossessione. Come dipendenza. Di cibo ci si ingozza, nei momenti
difficili: è l’eating emozionale.
Lungo tutto il romanzo, di
volta in volta, il rapporto con il cibo diventa spia del carattere dei
personaggi, della loro indole.
Come per la madre di Manuela:
“Per lei il cibo era un semplice ornamento, si sedeva sempre a tavola per un
fine”.
Ci sono i voraci, come il
direttore del museo “grasso e rumoroso” che si presenta “col suo passo lento
intralciato dal peso” e con “in bocca già il primo cornetto della giornata”.
In questa situazione di fame
smodata ci si ritrova a dover ‘digerire’ anche il fatto di lavorare senza
essere pagati, magari raccontandosi che quello stage sarà “giusto uno spuntino,
qualcosa per attutire il brontolio dello stomaco”, un antidoto per tentare di
mandar giù l’ennesimo boccone amaro.
Ci sono frasi, pensieri, come
quello di Derek che riflette “E, se mi fossi guardato da fuori, avrei pensato
di essere un uomo felice” nei quali facilmente si possono riconoscere i figli
della “generazione di mezzo” quella dei trentenni e dei quarantenni di oggi. Una
generazione, per dirla con le parole di Manuela, “più malata di tutte le
precedenti che si ricordino”, malata di solitudine. Sono i figli di quella che
Bauman ha definito società liquida, priva di riferimenti ‘solidi’.
Una chicca, servita quando
meno te lo aspetti, rende ancora più appetibile la storia.
Un senso di languore (inteso
come ‘sensazione penosa di vuoto’, ‘abbattimento spirituale’ ma anche fame,
appunto, vuoto allo stomaco, ben oltre il famoso ‘languorino’) pervade la
narrazione fino al finale. Che è meglio non anticipare, per non rovinare (o
‘spoilerare’) l’appetito.
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