Non dirmi che hai paura


Premetto di non essere mai stata una “dalla lacrima facile”. Almeno da ragazza. Col tempo, per fortuna, si cambia.
Detto questo, è successo (qualche mese fa) di aver dovuto aggiungere al kit da lettura – matita penna occhiali – anche fazzoletti di carta. Ed è successo con Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella (Universale Economica Feltrinelli).
Nella storia (vera) di Samia (Yusuf Omar), una bambina somala con la passione per la corsa, nella sua vita fatta dei giochi, delle riflessioni, delle delusioni, delle gioie e delle aspettative tipiche dell’infanzia si entra subito, fin dalle prime righe del romanzo. Ma quelle speranze per il futuro, nella sua terra, a Mogadiscio, si chiamano sogni. E la sua tenacia nel raggiungerli – nonostante le armi e la guerra, le restrizioni e i coprifuoco e quelle gambe magre, ma velocissime – si chiama coraggio. Al suo fianco c’è Alì, suo compagno di giochi ma anche allenatore e quasi fratello. E c’è sua sorella. Con lei ha un rapporto speciale che le difficoltà quotidiane non fanno che cementare. Samia punta in alto e dopo degli improbabili e impegnativi allenamenti notturni e le prime vittorie si qualifica alle Olimpiadi di Pechino. Diventa una campionessa, non solo nella corsa, ma anche nell’affermazione dei diritti delle donne, in tutto il mondo. Quindi l’appuntamento con le Olimpiadi di Londra del 2012. Per arrivarci, però, compie prima un viaggio ai limiti dell’immaginabile. E del sopportabile. È l’Odissea dei migranti: dall’Etiopia al Sudan, quindi il Sahara direzione Libia per arrivare, via mare, alla prima meta, cioè l’Italia. E non è 'solo' la distanza, non sono 'solo' gli ottomila chilometri: sono le condizioni, le privazioni, sono la forza fisica e mentale necessarie ad andare avanti il bagaglio più pesante di questo viaggio.
E non si pensi di essere preparati al finale. Non lo si può essere nonostante le tante notizie di cronaca che passano veloci, forse troppo in fretta per darti il tempo di realizzare che si tratta di vite spezzate, di famiglie che non rivedranno o non conosceranno mai quei loro parenti, di sogni irrealizzati, annegati in un mare di dolore.
Dal cuore agli occhi, senza neanche passare dalla mente. Le lacrime scendono e sorprendono. Poi – e solo dopo – arrivano la rabbia (per come è andata a finire e per come avrebbe potuto essere), l’ammirazione e quel sentirsi tanto piccoli (al pensiero di tutte quelle battaglie quotidiane che abbandoniamo senza lottare).
Non è politica. Non si tratta di accoglienza. È essere umani.

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